domenica 18 settembre 2011

IL MASSACRO MEDIATICO DI DON GALLO

Pubblico un articolo di Pierfranco Pellizzetti che esprime perfettamente, con parole che io non saprei usare, quello che ho provato ieri sera mentre cenavo e guardavo il programma In Onda su La7:


Ieri sera nella trasmissione “In Onda”, il talk-show de la Sette, abbiamo assistito in presa diretta almassacro mediatico di don Gallo, ad opera di interlocutori altrimenti improbabili; quali un monomaniaco fondamentalista del mercato, come il rieccolo malagodiano Antonio Martino, coadiuvato dal co-conduttore Nicola Porro, un perfido finto pacioso molto jet-set del Salento, berlusconiano mordi e fuggi di scuola Il Giornale.

I fan a prescindere del prete genovese probabilmente non se ne sono accorti, ma l’impressione che uno spettatore non pregiudizialmente schierato poteva ricavare dalla discussione era quella di due persone responsabili (i liberisti Martino e Porro), che esponevano problemi concreti, e un contraddittore in affanno (il no global Gallo, definito benevolmente “pretacchione” dal Milton Friedman de’ noantri Martino) aggrappato a genericità buonistiche e nuvole evangelico-sinistresi. Che – tra l’altro – cadeva in tutte le trappole sparse dai navigati furboni che lo attendevano al varco. Come quando il Porro, con l’accenno di birignao che fa neoborghese (anche mentre si ricattaEmma Marcegaglia?), gli chiedeva “qui chiudono le fabbriche, quali sono le sue ricette?” e il religioso non riusciva a divincolarsi, sperduto in appelli al volontariato e alla piazza. Se fosse stato un po’ più abile, avrebbe potuto replicare all’americanista un tanto al chilo con una battuta americana. Quella di John F. Kennedy, quando Richard Nixon gli pose la stessa questione: “al governo ci siete voi, fatemici andare e allora vi farò vedere”.

Santa ingenuità! Di fatto l’anziano “don” è avido di platee e l’ennesimo invito in televisione ha funzionato certamente da richiamo irresistibile. E fin qui è solo un problema suo. Purtroppo la retorica neofrancescana con cui si esprime funziona al meglio in un contesto orientato a proprio favore. Mentre, se deve misurarsi con ragionamenti (soprattutto se di provocatori volti al male o di ideologi pervicaci), rivela la fragilità delle dotazioni argomentative. E questo diventa un problema non più solo suo. Visto che consente il passaggio indenne di vere e proprie mascalzonate intellettuali. Come quando l’ineffabile Martino riproponeva la corbelleria che non esisterebbe un rapporto squilibrato di interdipendenza distributiva tra ricchi e poveri; mostrava senza arrossire la mela avvelenata per cui la ricchezza va a vantaggio di tutti; riproponeva l’insopportabile logica da dama della San Vincenzo che destinerebbe il benestante caritatevole a soluzione ottimale delle ingiustizie materiali.

Un rancido ciarpame, che ancora si poteva sopportare all’epoca del capitalismo manifatturiero, in cui la produzione industriale aveva interesse ad allargare la sfera del consumo coinvolgendo gli strati meno abbienti della società; che non funziona più in epoca di capitalismo finanziarizzato(creazione di denaro a mezzo denaro), in cui ai ricchi non può fregargliene di meno dei poveri, degli esclusi.

Ma tutto questo don Gallo non lo sa. Come non sa che le privatizzazioni sono l’astuzia (anche italiana: autostrade, telefonia, sanità, scuola, acqua…) grazie alla quale è stato svenduto il patrimonio pubblico a quei finanzieri e banchieri che, alla prima difficoltà, strillano reclamando interventi di salvataggio da parte dello Stato.

Per questo è successo quanto non doveva succedere: lasciato tracimare, il duetto Martino e Porro ha fatto un figurone. Sono sembrate persone affidabili.

Sarebbe ora – invece – che la nullaggine di questi fini dicitori di canzoncine che hanno portato il mondo sull’orlo della catastrofe, la malafede e le acrobazie mistificatorie di siffatti supporter finto-indipendenti del berlusconismo fossero smascherate. Sono troppi anni che la guerra non dichiarata dei ricchi contro i poveri è stata avvolta nelle chiacchiere propagandistiche che disegnano a vantaggio del privilegio (e a tragico svantaggio degli altri) un mondo che non è virtuale, è fasullo. Ma sono anche troppi anni che il compito di svelare l’inganno viene delegato alla declamazione retorica. Talvolta al narcisismo innocuo del protagonismo.

Certo, il Vaticano è schierato dalla parte dell’inganno promosso dagli espropriatori di ricchezza e di verità. Per cui un prete che dice parole non ortodosse può venire utile all’opposizione, nella logica (diciamolo, un po’ staliniana) del “compagno d strada”.

Ma bisogna rendersi conto che tale prete è un simbolo, non uno speaker.

simboli non parlano, svolgono funzioni metalinguistiche. La ragione per cui vanno preservati. Non vanno mandati al massacro. Anche loro malgrado.

Altrimenti mezze calzette come Porro e Martino fanno la figura dei colossi.

Un’ultima considerazione, più generale. In questi lunghi anni, mentre avveniva la sistematica devastazione della società italiana a ogni livello, la denuncia di singoli misfatti e reati non è mai mancata (tanto che la cronaca giudiziaria è diventata un vero e proprio genere letterario); ha latitato – invece – la comprensione “sistemica”: l’analisi ricostruttiva delle strategie e dei processi in atto (dal fenomeno Berlusconi come mutazione genetica del sociale alle reali poste in palio). Con almeno due effetti gravissimi: si è reso possibile presentare come “normale” ciò che normale non era; il dibattito pubblico è degenerato in tifo da stadio, in cui si sfidano opposte fazioni.



http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/09/18/perche-mandare-don-gallo-al-massacro/158296/

martedì 6 settembre 2011

TASSATEMI, SONO RICCO


Alle prese con i bilanci per il 2012, molti paesi europei preparano misure di austerity che peseranno soprattutto sulla classe media. Un movimento trasversale di milionari propone invece di cercare i fondi tra i redditi più alti, nella speranza di proteggere la crescita.
In principio era Warren Buffet. L'imprenditore statunitense e i suoi amici hanno ammesso di essere stati "coccolati troppo a lungo da un Congresso amico dei miliardari". Poi è arrivata Liliane Bettencourt, la donna più ricca di Francia, che l'anno scorso è finita al centro di uno scandalo fiscale. Insieme ad altri 15 miliardari francesi ha chiesto di pagare una tassa speciale per aiutare la Francia a venire fuori dalla crisi finanziaria.
Persino un italiano ha seguito la tendenza. Il boss della Ferrari ha infatti dichiarato che, essendo ricco, è "giusto" che paghi più tasse. Infine, mentre Francia e Spagna pensano di introdurre una tassa sulla ricchezza, un gruppo di 50 tedeschi si è unito al movimento "tassatemi di più" invitando apertamente Angela Merkel a "impedire che lo scarto tra i ricchi e i poveri continui ad aumentare".  
Il gruppo tedesco, Vermögende für eine Vermögensabgabe ("I ricchi per la tassa sul capitale") è soltanto l'ultima manifestazione di un sentimento che sta coinvolgendo alcuni individui più che benestanti, convinti che il denaro in esubero nei loro conti bancari possa servire a mitigare, se non proprio a risolvere, la crisi finanziaria che sta martoriando i loro paesi.
"Nessuno di noi è ricco quanto Buffet o Bettencourt", sostiene il fondatore del movimento tedesco Dieter Lehmkuhl, un medico in pensione con un patrimonio di 1,5 milioni di euro. "Siamo un gruppo eterogeneo: insegnanti, medici, imprenditori. La gran parte del nostro patrimonio è ereditato. Ma abbiamo più soldi di quelli che ci servono". Secondo il manifesto del gruppo la Germania potrebbe racimolare 100 miliardi di euro se i più ricchi accettassero di pagare una tassa del 5 per cento per due anni.
Lunedì Lehmkuhl ha rinnovato il suo invito al governo a riconsiderare la politica fiscale, già rivolto alla cancelliera due anni fa. Attualmente i tedeschi più ricchi vengono tassati al massimo del 42 per cento. Il tetto fiscale del 53 per cento istituito da Helmut Kohl è stato infatti abbassato dal suo successore Gerhard Schröder.
"Vorrei dire ad Angela Merkel che la soluzione per i problemi fiscali della Germania e per il nostro debito pubblico non risiede nei tagli massicci alla spesa, che colpirebbero in maniera sproporzionata i più poveri, ma nell'aumento delle tasse per i più ricchi", ha spiegato Lehmkuhl. "Si continua a parlare di pacchetti di salvataggio, ma non di aumenti delle tasse. Eppure è questa la soluzione per tirarci fuori da questo disastro. I soldi stanno lì, nelle tasche dei ricchi. Bisogna fare qualcosa per evitare che lo scarto tra i ricchi e i poveri continui ad aumentare".
Secondo i piani del gruppo la nuova tassa verrebbe applicata soltanto agli individui con un patrimonio superiore ai 500mila euro. Il capitale oltre questo tetto verrebbe tassato del 5 per cento nei primi due anni e dell'1 per cento (o più) in seguito. La settimana scorsa il presidente francese Nicolas Sarkozy ha proposto una soluzione simile: una tassa temporanea per i più ricchi, sotto forma di "contributo eccezionale" del 3 per cento da parte di chi guadagna più di 500mila euro all'anno. Con ogni probabilità la tassa non resterebbe in vigore oltre il 2013.
Tuttavia la proposta di Sarkozy è stata definita priva di senso da alcuni membri del suo stesso partito. La sinistra la considera una cortina fumogena per le esenzioni fiscali per miliardi euro concesse ai ricchi, mentre la nuova tassa porterebbe nelle casse dello stato appena 200 milioni. Secondo Chantal Brunel, parlamentare del partito del presidente (Ump), è necessario che il livello delle tasse "sulle grandi fortune" sia più alto, perché "i ricchi devono partecipare di più".

Montezemolo scende in campo

In Italia uno dei cittadini più ricchi si è fatto avanti offrendosi di pagare più tasse, a condizione però che il governo di Silvio Berlusconi intraprenda un ampio programma di riforme in senso neo-liberale. Luca di Montezemolo, presidente multimilionario della Ferrari, ha avanzato la sua proposta in un'intervista a La Repubblica pubblicata il 18 agosto.
Montezemolo, sulle cui ambizioni politiche circolano da tempo voci insistenti, ha invitato il governo a finanziarsi con la vendita di beni immobiliari e riducendo gli enormi privilegi della classe politica italiana. "Poi, ma solo a quel punto, se serve un contributo da parte dei cittadini, bisogna cominciare a chiederlo a chi ha di più, perché è scandaloso che lo si chieda al ceto medio". Le dichiarazioni di Montezemolo sono precedenti all'attacco dei mercati all'Italia, causato dai timori sul gigantesco debito pubblico del paese. Il presidente della Ferrari aveva proposto una tassa sugli introiti annui tra i 5 e i 10 milioni di euro, ma si è scontrato con un "assordante silenzio".
In Spagna il governo socialista starebbe considerando la reintroduzione di una tassa sulla ricchezza eliminata appena tre anni fa. Secondo alcuni esperti con la tassa patrimoniale (esclusa la prima casa) il governo incasserebbe fino a un miliardo di euro dai 50mila cittadini più ricchi del paese. Il ministro delle finanze Elena Salgado ha dichiarato ufficialmente di essersi pentita di aver abolito la tassa. Alfredo Pérez Rubalcaba, candidato premier socialista per le elezioni del 20 novembre, ha già promesso che aumenterà le tasse per i più ricchi.
A metà agosto Warren Buffett ha ammesso al New York Times di essersi sentito in colpa per aver pagato soltanto il 17,4 per cento di tasse (6,9 milioni di dollari), quando i suoi impiegati versano in media il 36 per cento. Dopo l'intervista al quotidiano newyorchese è stato preso in giro e attaccato da più parti. Il miliardario americano aveva suggerito un aumento delle tasse sul reddito e sugli investimenti per chi ha introiti tassabili superiori al milione di dollari, ovvero lo 0,2 per cento di coloro che nel 2009 hanno presentato la dichiarazione dei redditi. L'articolo del New York Times è stato aspramente criticato. "Ipocrita", l'ha definito il New York Post. "Gli interessa di più corteggiare Obama – che ha trasformato l'attacco ai 'milionari e i miliardari' nel principale argomento per la sua rielezione – piuttosto che contribuire personalmente", ha accusato il quotidiano.
Harvey Golub, ex amministratore di American Express, ha dichiarato al Wall Street Journal: "Prima di chiedere di pagare più tasse, pensate a incassare in modo più equo i 2,2 trilioni di dollari che ricevete ogni anno e a spenderli meglio". (Helen Piddtraduzione di Andrea Sparacino)

sabato 3 settembre 2011

UNA GENERAZIONE BUTTATA NEL CESSO

Pubblico qui un articolo di Eleonora Voltolina che ho trovato sul sito www.repubblicadeglistagisti.it: 

«Allarme, con meno tirocini i giovani restano disoccupati, sarà un dramma per l'occupazione». Ma non è vero: ecco perchè

È apparsa l'altroieri sul quotidiano Sole 24 Ore, nella pagina dei commenti, una presa di posizione di Alessandro De Nicola sulla manovra ferragostana del governo, e in particolare sull'articolo 11 che introduce nuovi paletti per l’utilizzo dello strumento del tirocinio. De Nicola, avvocato e docente universitario, è una penna autorevole e tra le altre cose è presidente della Adam Smith Society. Il succo del suo intervento è che il giro di vite sugli stage, che prevede un dimezzamento della durata massima per tutti quelli non curriculari (portandola da dodici mesi a sei) e uno sfoltimento della platea dei potenziali stagisti (escludendo, salvo poche eccezioni, tutti coloro che abbiano conseguito il diploma o la laurea da più di un anno), avràconseguenze drammatiche sull'occupazione giovanile.
Dato che da anni su questo sito ci si occupa proprio di questo tema - accompagnando i giovani a scegliere gli stage più efficaci e a riconoscere le imprese virtuose,sostenendoli nelle difficoltà e denunciando i casi in cui imprese private ed enti pubblici si approfittano dello stage per poter disporre di personale a basso costo - è giusto esprimere la posizione della testata.
Nell'articolo si afferma che il legislatore limita la possibilità di svolgere tirocini senza rendersi conto che «l'alternativa non è tra uno stage di dodici mesi ed uno di sei mesi e poi l'assunzione, ma semplicemente tra un tirocinio più lungo ed uno più breve o nessun tirocinio». La
 Repubblica degli Stagisti è fortemente convinta che ciò non sia vero. E per un semplice motivo: le imprese hanno business da mandare avanti. Hanno progetti, consegne, clienti, commesse. Hanno uffici da aprire ogni mattina e chiudere ogni sera. Hanno bisogno dei giovani.
Fino a che la flessibilità non è esistita, lo hanno fatto con un binomio: o contratto di lavoro a tempo indeterminato, o nero. Non era un bel mercato, ne conveniamo. Poi è arrivata la flessibilità, purtroppo fatta male, con leggi fatte male, senza ammortizzatori sociali, con un sindacato-struzzo che ha lavorato solo per mettere al riparo chi aveva già un contratto, scaricando tutte le criticità su chi ancora doveva entrare nel mercato del lavoro. Il pacchetto Treu, tra le altre cose, a cavallo tra il 1997 e il 1998 ha formalizzato i tirocini, dando loro una cornice normativa. Da quel momento in poi i datori di lavoro hanno avuto la possibilità di accogliere persone in stage, con limiti blandissimi e controlli inesistenti. Molto velocemente ne hanno capito i vantaggi: nessuna sanzione prevista in caso di violazione, tanti giovani entusiasti e speranzosi, tante braccia e tanti cervelli svincolati da ogni contratto nazionale, privi di tutela sindacale, e per di più con la bella facciata della sono-così-generoso-che-ti-offro-una-formazione-e-guai-a-chiamarla-lavoro.
Tornando al punto. Le aziende oggi come ieri come domani attuano un naturale turn-over, alimentato da chi va in pensione, chi dà le dimissioni, chi cambia lavoro, chi disgraziatamente si ammala o fortunatamente mette al mondo un figlio. E in questo turn-over un ruolo chiave ce l'hanno sempre avuto i giovani. Da una parte perché, in ragione dell’inesperienza e dell’assenza di anzianità, possono essere pagati di meno. Dall'altra perchè hanno competenze che i vecchi non hanno, specialmente in quest'epoca di impetuosa evoluzione tecnologica. Per far imparare un giornalista 50enne a scattare, ritagliare, caricare su un sito la foto di un evento, aggiungerla al pezzo e pubblicare, può passare anche un mese. A un ventenne non serve nemmeno spiegarlo: è lui che al limite ti spiega che guarda, così si può anche modificarla, vedi che questo effetto la migliora, e poi vuoi che ci aggiungiamo una didascalia? E il video dell’evento, non lo mettiamo?
Quindi: le aziende hanno avuto, hanno e avranno sempre bisogno di giovani. Limitando il bacino dei potenziali stagisti non si limita la possibilità per i giovani di trovare un lavoro: perché l'agenzia pubblicitaria avrà sempre lo spot da consegnare entro la prossima settimana, la casa editrice le bozze da mandare in tipografia alla fine del mese, l'agenzia di consulenza la consegna urgente del report, e il reparto marketing della multinazionale dovrà presentare il business plan per la riunione semestrale. I negozi avranno il surplus di lavoro natalizio, gli alberghi e i ristoranti le stagioni turistiche. Il lavoro c'è e andrà sbrigato da qualcuno: per questo c’è letteralmente sete di giovani. 
L’unico effetto che questa norma avrà se resterà in vigore - e non verrà falcidiata o depotenziata con il passaggio in aula – sarà quello di far avvizzire, meglio tardi che mai!, quello che molti datori di lavoro pubblici e privati con pochi scrupoli hanno considerato l'albero della cuccagna. D'ora in poi, con i nuovi paletti, il numero degli stage non potrà che essere inferiore agli anni passati. E a quel punto si apriranno molte opportunità di lavoro vero, in primis attraverso i contratti di apprendistato. L’alternativa, parafrasando De Nicola, è tra mille stage che fino ai ieri potevano arrivare fino all'abnorme durata di dodici mesi, e di cui solo il 10-12% (uno su dieci!) portava a un contratto di lavoro, e cento stage da massimo sei mesi, a cui magari seguirà qualche assunzione in più. E a cui si andrà ad aggiungere l’attivazione di duecento, o trecento, o addirittura novecento contratti veri. Senza contare, attenzione, che gli stage di dodici mesi non saranno affatto vietati del tutto: quelli curriculari potranno continuare a durare anche così tanto.
Il mercato è stato drogato, negli ultimi 15 anni, dalla gratuità del lavoro giovanile, essenzialmente attraverso l'attivazione di migliaia e migliaia di stage che invece sarebbe stato più corretto formalizzare come contratti di lavoro. È ora e tempo di darci un taglio.

http://www.repubblicadeglistagisti.it/article/commento-nuova-normativa-tirocini-in-manovra-finanziaria


La penso sostanzialmente come l'autrice di questo articolo.
E quello che mi viene da pensare è un bel VAFFANCULO a chi ha reso la mia generazione una cavia da laboratorio sociale.
Tra la riforma del cosiddetto 3+2 universitario e la limitazione dell'abuso degli stage mi ritrovo a quasi 28 anni, e non ho quasi più l'età per poter firmare un ipotetico contratto di apprendistato (il limite è 29 anni).
FANCULO a chi fa questi esperimenti (chiamarli riforme sarebbe troppo) senza criterio (chi ha trovato un lavoro decente con la sola laurea triennale me lo faccia sapere): i figli di questi lungimiranti riformatori non hanno certamente bisogno di fare uno stage... magari hanno dovuto rifare 3 volte l'esame di maturità, avendo anche papà fatto ricorso al Tar, e poi sono diventati come per incanto consigliere regionale...